Il sogno dell’Eccelsa – parte 1

Incipit

Dal testo sacro “Le parole e le opere”, del Profeta Mazdak detto il Vaticinus

Le ore della notte che anticipano il risveglio, quelle in cui il tocco delle rosee dita dell’aurora deve ancora sfiorare le palpebre dei fedeli dormienti, sono il momento in cui i dolci sogni cullano i cuori dei puri e dei giusti, premio di Oura per la loro rettitudine. Altresì gli incubi più tremendi perseguitano le menti di coloro che hanno peccato, o che sanno di aver mancato ai propri doveri. Essi sono quindi la giusta punizione inviata dalla divinità per rammentare a tutti che il Suo sguardo vede ogni cosa.

Silvania

Quella notte dovevano essere in molti, nel Palazzo Celeste, a ritenere di aver offeso con parole ed opere l’Androgino, poiché un gran numero tra i prelati, ufficiali ed inservienti che popolavano la dimora dell’Eccelso erano stati destati da cupi presagi. Silvania Severa Geminiana era turbata. Raramente i sogni erano qualcosa di cui ritenesse di doversi preoccupare, forse poiché il suo ruolo di Matriarca Diurna di Oura la caricava talmente tanto del peso del buon governo che lo considerava inevitabile. Questa notte era stato diverso: il senso di angoscia che l’aveva spinta a svegliarsi e le orribili immagini che credeva di aver scorto nei suoi sogni non potevano essere che frutto di timori e colpe personali molto serie, che pure lei ignorava. Silvania era una fervente servitrice del dio Dai Due Volti e si era sempre ritenuta monda da grandi e piccole colpe. Certo, era consapevole di risultare spesso altera, piuttosto che severa, e che questo le derivasse dall’orgogliosa consapevolezza che i suoi antenati avessero fatto tanto, e bene, per Invicta. Combatteva quindi questa sua indole meditando e facendo opere di bene, mortificandosi quando riteneva di aver ecceduto e cercando di adempiere al meglio delle sue capacità al volere di Oura. Ad ogni modo, poiché ormai era desta, decise di alzarsi, compiere le proprie abluzioni, intrecciarsi i lunghi capelli e indossare le candide vesti che la contraddistinguevano, per poi dirigersi nelle Aule del Giorno, l’ala del palazzo dove si trovava il suo studio. V’erano rapporti da leggere, ordini da impartire, lettere da scrivere: se Oura aveva deciso fosse ora per lei di destarsi, tanto valeva mettersi al lavoro. Muovendo un passo dopo l’altro le parve che il suono delle leggere calzature di seta rimbombasse, assordante, nelle alte volte dei corridoi. Nervosa, Silvania avanzava tenendo il bordo delle gonne sollevato, per poi accorgersi di essere quasi sul punto di correre.

– Questo è assurdo! – si lasciò sfuggire mordendosi il labbro inferiore, gesto fanciullesco che s’era imposta di abbandonare ma che ora, in preda all’agitazione, riaffiorava ed andava ad aumentare il suo nervosismo. Si accorse di essersi fermata a metà dell’incrocio tra due corridoi e fu allora che si rese conto che il suo senso di disagio non era solo frutto dell’immaginazione: – Dov’è la ronda? –

Le guardie erano di picchetto in parti specifiche del palazzo, pronte ad intervenire o ad annoiarsi per lo più. Non era mai accaduto alcunché di noto nel Palazzo Celeste, da quando lei ricordava, che necessitasse del loro intervento. Ad ogni modo ne avrebbe parlato a Iustus: era inconcepibile una simile mancanza e quando fosse venuta a capo della vicenda più di una testa sarebbe caduta. Il pensiero del Patriarca Notturno la distrasse per un attimo: lo sguardo dell’uomo su di sé la inquietava spesso ma, al contempo, la lusingava. Ecco un altro peccato di cui chiedere venia. Scosse il capo, licenziando certi frivoli pensieri mentre l’indignazione, forse anche la rabbia, per la grave mancanza tornarono a fare capolino e, al contempo, impedirono a Silvania di accorgersi di un altro, singolare dettaglio: le luci nei corridoi erano eccezionalmente fioche, anche rispetto alle normali consuetudini per l’illuminazione notturna. Ugualmente le era sfuggito un altro decisivo dettaglio, purtroppo molto più letale, ovvero la lama insanguinata che stava per colpirla alle spalle.

[Continua…]